Il Pd tra mercato, produttività stagnante, salari bassi e tutte quelle cose lì, irrisolte
C'è una cosa che molti nel Pd preferiscono ignorare: mercato e giustizia sociale possono sostenersi a vicenda.
Premessa.
Scrivere questo articolo mi ha impegnato a lungo. L’ho finito poco prima delle recenti elezioni europee e comunali ma ho aspettato a pubblicarlo per evitare che apparisse come un invito a non votare Pd: non era e non è questa la mia intenzione. Anzi. Credo che il Pd abbia un ruolo molto importante da giocare a condizione che non continui a evitare le questioni cruciali a cui è dedicato questo articolo. Ci sono le elezioni e ci sono i problemi. Vincere le prime è una gran bella cosa ma non cancella automaticamente gli altri se non ci si lavora per tempo. Buona lettura.
Il Pd è da sempre candidato alla guida del paese. Ha governato spesso e lo farà ancora. Ma da tempo sembra incapace di spiegare come pensa di riformare un paese in profonda crisi.
C’è un tema che spiega perfettamente questa situazione: la bassa produttività del nostro sistema economico. Nel Pd se ne parla pochissimo e si capisce perché: per farlo bisognerebbe affrontare temi tradizionalmente scomodi per una parte dei suoi militanti e del suo elettorato.
La produttività stagnante dell’Italia
Per l’Italia la produttività1 è un problema da decenni. Guardate questo grafico e fatevi un’idea.2 Non ci vuole molto a capire che siamo di fronte a un tema di cui la politica dovrebbe occuparsi ogni giorno.
Quando la produttività non cresce, infatti, sono guai. Per esempio, vi potreste trovare davanti a un debito pubblico alto e crescente, a un rischio-pensioni per i nostri figli, alla migrazione dei nostri giovani più qualificati, a salari molto bassi. Cose di cui, immagino, avete qualche esperienza. E a propostito di salari, anche qui l’Italia ha la maglia nera: lo mostra questo grafico del Sole 24 Ore. Produttività stagnante e salari bassi sono due facce della stessa medaglia.
Variazione salariale 1990-2020
E ancora, senza crescita della produttività come pensate che potremo finanziare in futuro le cose a cui siamo più affezionati, dalla sanità pubblica all’istruzione gratuita alle politiche sociali al sostegno alla natalità alla lotta alla povertà?
Molti, a destra come a sinistra, pensano che la soluzione sia aumentare continuamente la spesa pubblica senza preoccuparsi troppo di un debito pubblico altissimo e crescente. Ma a un certo punto dovranno capire che se la produttività non si muove non c’è spesa pubblica né formule magiche3 che possano fermare il declino dell’Italia.
Il mercato e il tabù della produttività
Il problema è che per parlare a fondo di produttività stagnante bisogna prima di tutto superare i pregiudizi che, soprattutto a sinistra, atteribuiscono al mercato
il ruolo del grande nemico. L’idea, credo, è quella secondo cui il ruolo principle del mercato sarebbe quello di concentrare la richezza prodotta nelle mani di pochi con conseguenti alti livelli di disuguaglianza.
Ma questa è una lettura sbagliata. Il ruolo principale del mercato — quando esistono le condizioni necessarie a consentire il suo pieno funzionamento — non è distribuire la ricchezza ma crearla
usando al meglio le risorse esistenti. Certo, il funzionamento del mercato determina anche come le risorse vengono distribuite, ma la politica ha molte leve per correggere nel senso dell’equità una distribuzione considerata iniqua (è il tema di cui parlerò a lungo tra poco).
Capire che il mercato è fondamentale per generare ricchezza è particolarmente importante in tempi di grandi cambiamenti tecnologici — i nostri tempi, dagli anni ‘80 (i pc) fino a oggi (robotica e IA): se il mercato non funziona, le nuove conoscenze tecnologiche fanno fatica a trasformarsi in aumenti di produttività.
Il motivo è semplice. L’adozione delle nuove tecnologie richiede sempre che il sistema economico sia libero di trasformarsi profondamente, di cambiare pelle. È la “distruzione creatrice” di Schumpeter. Ci sono imprese che diventano obsolete e che devono lasciare spazio e risorse a quelle capaci di innovare, posti di lavoro che si perdono, competenze che non hanno più valore, altre che diventano essenziali e creano nuova occupazione. Questa transizione dal vecchio al nuovo richiede flessibilità
, cioè che il sistema delle imprese non trovi ostacoli nel percorso di trasformazione necessario per far crescere la sua produttività.
Ma di ostacoli in Italia ne abbiamo quanti ne volete. Ci sono sussidi pubblici e norme che consentono a piccole imprese inefficienti, in agricoltura come nell’industria e persino nelle concessioni demaniali, di sopravvivere senza innovare e né saper valorizzare il capitale umano dei nostri giovani. Usiamo risorse pubbliche in quantità per tenere in piedi grandi imprese che la globalizzazione ha reso irrimediabilmente incapaci di reggersi da sole. E poi c’è la contrattazione salariale che, se riformata con in mente il modello tedesco, potrebbe collegare virtuosamente salari e produttività a livello aziendale: ma di riforme così non se ne parla (immagino che la CGIL e forse anche Elly Schlein si innervosirebbero, loro che dichiarano di voler abolire una delle poche riforme vere fatte in Italia in questi anni, il Jobs Act4). E ancora, c’è una formazione professionale di qualità inadeguata e pochissimo credibile agli occhi dei disoccupati che ne avrebbero un disperato bisogno per trovare un nuovo lavoro dignitoso. Ma anche la formazione professionale, come le licenze per i taxi e le concessioni balneari e tante altre cose, sembra irriformabile. Eccetera.
Così, mille interessi particolari ci impediscono di avere il sistema flessibile di cui avremmo bisogno.
Quei mille interessi trovano facile sponda nella politica a causa della diffusa paura che la “distruzione creatice” sia fatta solo di disoccupazione, di inaccettabili livelli di disuguaglianza, di coesione sociale a rischio di tenuta.
••• La storia insegna che di fronte a grandi cambiamenti tecnologici serve una politica molto inclusiva
Sono rischi che è giusto considerare ma — questo è il punto che molti sembrano ignorare — evitabili: una flessibilità anche molto più alta di quella attuale non creerebbe necessariamente disagio economico e sociale. È una affermazione forte ma ho buoni motivi per sostenerla.
Flessibilità e sicurezza, mercato e giustizia sociale
Qui la parola chiave è flexicurity, sintesi di flessibilità e sicurezza
. La prima è, appunto, ciò di cui ha bisogno il mercato per generare aumenti di produttività.
In assenza di buona politica, le trasformazioni che la flessibilità favorisce possono creare tensioni, resistenze e molta sofferenza sociale. Di fronte alla Rivoluzione Industriale i luddisti pensarono che la soluzione fosse distruggere le macchine che gli rubavano il lavoro. La loro disperazione era comprensibile ma sbagliavano. Bloccare una tecnologia innovativa vuol dire alla fine condannare tutti a essere più poveri.
La soluzione è affiancare la sicurezza alla flessibilità. Sicurezza vuol dire avere politiche adeguate per limtare l’impatto sociale delle nuove tecnologie, vuol dire saper creare istituzioni pubbliche inclusive
, capaci di proteggere i lavoratori dai rischi più immediati e di farli partecipare alla distribuzione dei benefici generati dalle innovazioni tecnologiche.
Sembra complicato ma ci sono esempi di successo che dovrebbero rassicurarci tutti.
C’è l’esempio conosciutissimo ma spesso ignorato che viene dai paesi del nord Europa, che coniugano da decenni molta flessibilità del mercato e molta sicurezza sociale; ma c’è anche la storia
che ha grandi lezioni da darci; e c’è persino una lezione che arriva da Santo Domingo
, nonostante non sia né la Svezia né la Danimarca.
Le istituzioni inclusive nella storia
Fino al 1750 l’economia mondiale non aveva conosciuto fasi di crescita prolungata perché le innovazioni tecnologiche erano rare. Con la Rivoluzione Industriale e la capacità di usare l’energia a sostegno della meccanizzazione, tutto è cambiato per sempre.
Le innovazioni che da allora si sono succedute a un ritmo sostenuto hanno seguito sempre lo stesso schema: hanno creato spazio al nuovo distruggendo molto di ciò era diventato vecchio.
È qui che la politica è intervenuta con successo per “disarmare il distruttivo”, e lo ha fatto inventando dal nulla istituzioni inclusive di enorme impatto.
Esempi di queste “invenzioni sociali” si trovano nell’eccellente articolo dell’economista inglese Andrew G. Haldane. Il primo esempio è la nascita della scuola dell'obbligo
gratuita
, che permise a tutti di partecipare alle opportunità lavorative generate dalla rivoluzione indistriale.
Tuttavia, questo non bastava. Consentire ampio accesso all’istruzione migliorava le prospettive delle nuove generazioni, ma non le condizioni degli adulti che avevano perso il lavoro. Qui serviva garantire un decente livello di vita a chi doveva affrontare un lungo e incerto periodo di transizione professionale. Anche qui il problema è stato affrontato con la creazione di una seconda istituzione inclusiva, quella che oggi chiamiamo Stato Sociale
. Nata alla fine dell’ottocento, ha assunto le forme che conosciamo nel secondo dopoguerra. Da allora funziona come una sorta di assicurazione pubblica. In decine di paesi sviluppati garantisce condizioni di vita dignitose durante i periodi di disoccupazione, riduce le disuguaglianze, rinforza la coesione sociale.
La lezione sembra chiara. Riconoscere l’importanza del mercato e dei suoi meccanismi fondamentali non significa rinunciare a una politica che voglia garantire una sostanziale giustizia sociale. Anzi. Se la ricostruzione storica di Haldane è giusta, è vero l’esatto contrario. La coesione sociale garantita da istituzioni inclusive favorisce una adozione non conflittuale delle nuove tecnologie, ne accelera la diffusione, consente al sistema economico di diventare rapidamente più produttivo.
E se la storia di Haldane non vi ha convinto, proviamo ora con la geografia.
Santo Domingo, mica Stoccolma o Helsinki
Lo sanno in pochi, ma da decenni la Repubblica Dominicana ha una crescita media del 4,9% all'anno. Una performance straordinaria in un contesto, l’America Latina, in cui i disastri economici abbondano (Haiti, a pochi chilometri da Santo Domingo, è uno dei tanti esempi).
A cosa si deve questo successo? Come ha dichiarato il Presidente Luis Abinader al Financial Times (FT), “Il nostro governo è favorevole agli investimenti e alle imprese, ma allo stesso tempo abbiamo aumentato la spesa sociale più di qualsiasi altro governo”. Si tratta di investimenti in istruzione, in sanità, nei trasporti pubblici e in ampi programmi di welfare. Aggiunge Abinader: “Questa è la chiave del successo perché ci aiuta a mantenere la pace sociale”. Altrove questa saggia impostazione è ignorata. Come nota ancora il FT:
[Diversamente dalla Repubblica Dominicana,] l'America Latina rimane bloccata in un mondo di politiche stop-and-go ed estremismi politici, dove la sinistra si oppone alle imprese e tende ad aumentare la spesa pubblica, mentre la destra si vanta di bilanciare i bilanci e corteggiare le imprese ma spesso trascura il welfare e i servizi pubblici.
Come vedete, un problema del tutto simile a quello che impedisce al Pd di trovare una sintesi e una voce condivisa sui grandi temi del paese.
Ma come dice ancora Abinader,
“abbinare politiche pro-crescita moderate con una spesa adeguata per sostenere servizi pubblici chiave e infrastrutture essenziali è una ricetta semplice che funziona. Non l'ho inventata io... non dobbiamo reinventare la ruota".
Infatti, non dobbiamo reinventare proprio nulla: mettere insieme politiche che rispettino le regole del mercato con quelle che garantiscano giustizia sociale è una ricetta conosciuta e sperimentata da anni anche in contesti molto diversi da quelli irripetibili dei paesi del nord Europa.
Quindi
Siamo di fronte a una nuova, enorme rivoluzione tecnologica che si chiama “intelligenza artificiale”.
Come è sempre successo, anche questa trasformazione avrà un profondo impatto sul mondo che conosciamo. Soprattutto, il mercato del lavoro diventerà un’altra cosa: moltissimi tasks non li svolgeranno più gli umani ma l’IA, in altri tasks umani e IA si completeranno a vicenda generando incrementi di produttività che ancora oggi facciamo fatica a prevedere.
Ogni rivoluzione tecnologica ci pone di fronte a un bivio. L’IA potrà migliorare le condizioni di lavoro di tutti, far crescere le retribuzioni, anche quelle oggi molto basse, diffondere benessere; o potrà distruggere lavoro e gonfiare i profitti dei soliti pochi, facendo aumentare la disuguaglianza.
••• Una sintesi politica tra le due anime del Pd è possibile
Come è sempre successo, la differenza la farà la politica. Come abbiamo visto, si può guidare la transizione che abbiamo di fronte verso esiti inclusivi. Le lezioni del passato ce lo dicono con chiarezza.
In teoria, il Pd è nelle condizioni ideali per formulare una proposta politica adeguata ai tempi, per individuare e proporre nuove istituzioni inclusive di cui avremo presto bisogno.
Il Pd ha al suo interno una componente riformista, che conosce e rispetta il ruolo del mercato nella produzione della ricchezza; e ha una seconda componente che crede, giustamente, che una equa distribuzione della ricchezza non arriverà dal lassaize faire ma da politiche pubbliche forti e adeguate.
Se queste due componenti riusciranno finalmente a dialogare senza paraocchi ideologici e senza diffidenze reciproche, il Pd assumerà un ruolo di straordinaria importanza nel guidare il paese in una fase di trasformazioni profonde.
Se non ci riusciranno, l’idea concreta di una società più efficiente e insieme più giusta rimarrà lì a disposizione di altri.
Qui parliamo di “produttività del lavoro”: un indicatore che ci dice quanto produce in media un lavoratore in un cerrto numero di ore. La produttività cresce grazie all’adozione di migliori tecnologie, competenze e capacità organizzative.
Per esempio, pensare che si possa finanziare al 110% chiunque voglia ristrutturare questo o quello senza problemi per la finanza pubblica. Lo pensa Conte e molti nel Pd applaudono. Peccato che nel mondo reale le cose funzionino diversamente, molto diversamente.
Se anche solo leggere “Jobs Act” vi rende nervosi, approfittatene per confrontare la vostra idea sul tema con quella di un economista molto serio, Tommaso Nannicini.
Analisi molto interessante. A me però viene una domanda: perché questa riflessione e rivoluzione deve venire dal PD? Che si distruggesse il PD e si mettesse in piedi qualcosa di diverso, mosso proprio da persone come lei che parlano di produttività, concorrenza e qualità dell'istruzione. Che si ripartisse da questi concetti per "fermare il declino italiano" (giusto per citare un vecchio progetto promettente e molto attuale).
L'articolo offre un'analisi dettagliata delle sfide interne al PD, ma manca una critica alle basi ideologiche del nostro sistema economico.
Le strutture sociali e culturali italiane influenzano profondamente sia la politica che l'economia. Il mantenimento del potere a breve termine ostacola l'innovazione e la visione a lungo termine.
Un vero rinnovamento del PD richiederebbe un cambiamento radicale che superi la semplice inclusione di giovani e realtà locali (sacrosanta e condivisibile - ovviamente), puntando su politiche che promuovano la creatività e il benessere collettivo. Inoltre, un confronto con modelli internazionali di successo, come quelli nordici, potrebbe offrire spunti preziosi.
Infine, sarebbe utile considerare l'influenza delle multinazionali e la concentrazione della ricchezza, che complicano l'attuazione di politiche efficaci.
Solo attraverso una comprensione più ampia e profonda delle dinamiche economiche e sociali il PD potrà realmente rinnovarsi e affrontare le sfide future.
Detto ciò, ho apprezzato la lettura, ha offerto alcuni buoni spunti!