Cause molto sorprendenti del calo delle nascite
Com'è che il tasso di fecondità di una regione meridionale, bassissimo, è simile a quello della ricca e scintillante Corea del Sud? Claudia Goldin, Nobel di Economia, ha un'ipotesi affascinante.
Il declino del tasso di fecondità
Scambiare fenomeni globali per vicende locali non è mai una buona idea. Disegnare politiche sulla base di fenomeni non pienamente compresi è un’idea anche peggiore.
In Italia, quando si parla di spopolamento è facile che si finisca a parlare del caso più drammatico, la Sardegna.
Nel 1960 il “tasso di fecondità” sardo (TdF: numero di figli per donna) era in media pari a 3,4. Per mantenere stabile nel tempo una popolazione il TdF dovrebbe essere pari a 2,1. Nel 1960 la popolazione sarda, dunque, cresceva a un ritmo sostenuto. Nel 2023, ultimo dato disponibile, il TdF è invece pari a 0,91: la popolazione sarda, al netto dei flussi migratori, ha una forte tendenza a diminuire.
Sulle cause di questo TdF così basso, nella stampa locale sono frequenti i riferimenti alla “la persistente depressione economica … La difficoltà di trovare un lavoro stabile e ben retribuito spinge molte coppie a rinviare o rinunciare alla procreazione” (Nuova Sardegna, 6.1.2025).
Ora abbandoniamo il locale e diamo un’occhiata al globale. A 12 ore di volo dall’Italia c’è la Corea del Sud: il pro-capite è simile a quello italiano, quindi almeno del 30% maggiore di quello sardo; il tasso di disoccupazione è del 3%, contro il 10% sardo; è al 6° posto del Global Innovation Index (l’Italia è al 26° posto). Insomma, niente “persistente depressione economica” in Corea. Nel 1960 il TdF era pari a 6, nel 2023 è 0.71, inferiore a quello sardo.
Prima di cercare la formula per combattere il fenomeno bisogna capirne la natura, e per farlo servono ipotesi che soddisfino almeno il requisito minimo di spiegare perché territori profondamente diversi come Sardegna e Corea hanno seguito sentieri molto simili.
Fenomeno globale, con una differenza
Allarghiamo ancora lo sguardo. Il TdF medio nel mondo era pari a 5 nel 1960, ora è a 2,27 (sarebbe più basso al netto di pochi paesi come la Nigeria). Dunque, siamo di fronte a un fenomeno globale che sembra ignorare le enormi differenze di condizioni economiche e sociali che esistono nel mondo. È un fenomeno di cui sappiamo ancora troppo poco, come conferma la diffusa inefficacia delle molte e variegate politiche adottate ovunque per cercare di contrastare il calo del TdF (Financial Times, 25.1.2025).
Una recente ricerca di Claudia Goldin,1 Premio Nobel dell’economia 2023, si occupa del tema ed è interessante per almeno due motivi. Primo, sviluppa una tesi del tutto nuova e per molti aspetti sorprendente. Secondo, supera il test citato sopra: propone una spiegazione del declino parallelo di Sardegna e Corea del Sud.
Secondo Goldin, il declino della fecondità è stato particolarmente marcato nei Paesi che hanno vissuto una trasformazione economica e sociale molto rapida nel Secondo dopoguerra. Il suo studio usa come esempio un gruppo di sei paesi, Grecia, Italia, Giappone, Portogallo, Spagna e, appunto, Corea del Sud. Prima della guerra, queste nazioni erano prevalentemente agricole, povere e legate a consolidate tradizioni patriarcali. Dopo il conflitto, con la cosiddetta “età dell’oro della crescita”, hanno avuto uno sviluppo industriale accelerato, accompagnato da una massiccia migrazione dalle campagne e dall'improvvisa apertura del mercato del lavoro femminile.
Per mantenere stabile la fecondità in un contesto così mutato, spiega Goldin, sarebbe stato necessario un maggiore e più credibile coinvolgimento degli uomini nella gestione della casa e dei figli, così da consentire alle donne di lavorare senza dover ridurre ulteriormente il numero di nascite. Tuttavia, in società ancora fortemente tradizionali, il cambiamento è avvenuto così rapidamente da impedire alle generazioni di adeguarsi ai nuovi modelli familiari e lavorativi. In particolare, gli uomini tendono a rimanere fedeli alle norme patriarcali trasmesse dal passato.
Da un lato, la modernità offre alle donne maggiori opportunità di emancipazione; dall'altro, gli uomini spesso difendono i valori tradizionali da cui traggono beneficio, generando un vero e proprio “conflitto di genere”. Questo, sottolinea Claudia Goldin, accade perché il mutamento economico procede più velocemente di quello culturale: più rapido è il cambiamento, più forte diventa la tensione tra i modelli sociali. Man mano che lo sviluppo avanza, le donne si liberano di numerosi vincoli tradizionali, ma se il carico domestico e la cura dei figli rimangono quasi interamente sulle loro spalle, potrebbero essere riluttanti ad averne di più, soprattutto se non percepiscono un impegno concreto dei partner nella condivisione delle responsabilità.
Goldin produce solida evidenza empirica a sostegno della sua tesi. Qui basta citare la principale controprova della sua argomentazione. Se questo forte calo del TdF è associato a una sostenuta crescita economica che avviene improvvisamente in contesti di persistente cultura patriarcale, il fenomeno dovrebbe essere invece debole o assente in società già economicamente sviluppate ben prima del Secondo dopoguerra. Paesi cioè in cui, secondo la teoria di Goldin, le generazioni avrebbero avuto a disposizione il tempo necessario per adattarsi ai cambiamenti generati da un processo di crescita economica più distribuito nel tempo, con una cultura patriarcale che avrebbe man mano perso influenza sul comportamento della componente maschile.
Guardando i dati di sei paesi con queste caratteristiche (Danimarca, Francia, Germania, Svezia, Regno Unito e gli U.S.A.), Goldin trova conferma di due aspetti previsti dalla sua teoria. Primo, l’assenza di un declino rapido del TdF. Il Grafico 1 riporta i dati medi (non ponderati per la popolazione) di un sottoinsieme dei due gruppi di paesi, quelli a “crescita improvvisa” in blu, e quelli con prosperità economica più antica in rosso.2 Negli anni Settanta, il primo gruppo mostra un tasso di fecondità totale più alto rispetto all’altro gruppo, che però presto diventa più basso a partire da metà degli anni ’90. Il secondo gruppo parte da un tasso di fecondità inferiore che oggi è però più alto rispetto al primo gruppo. Il forte calo del TdF che osserviamo nel mondo sembra dunque essere effettivamente trainato dai paesi caratterizzati dal meccanismo analizzato da Claudia Goldin.
Secondo, i paesi con una crescita più repentina e una maggiore migrazione dalle zone rurali verso le città, sono – come previsto da Goldin – anche quelli in cui le donne registrano un numero di ore di lavoro domestico e di cura non retribuito nettamente superiore rispetto agli uomini.
Goldin e l’Italia divisa
Veniamo a noi. Come abbiamo visto, l’Italia fa parte del gruppo dei paesi a crescita rapida. Ma se guardiamo al suo interno, alle ripartizioni territoriali, abbiamo una ulteriore opportunità di confrontare l’ipotesi di Claudia Goldin con i dati.
Nel Secondo dopoguerra il nord del paese aveva raggiunto un livello di prosperità molto più alto di quello delle regioni meridionali. Il “miracolo italiano” – la rapida crescita trainata da industrializzazione ed esportazioni iniziata negli anni ’50 – ha coinvolto l’intero paese ma, secondo la teoria di Goldin, i suoi effetti sul TdF dovrebbero essere più forti nel Mezzogiorno, l’area più arretrata e rurale del paese. Questo in effetti è ciò che si osserva nel Grafico 2, in cui mostriamo la Sardegna insieme al Nord e al Mezzogiorno.3 Anche qui le regioni tradizionalmente prospere partono con un TdF più basso, che poi registra un calo più moderato di quello delle regioni meridionali, che partivano invece da tassi nettamente più alti.
Per essere certi che i dati mostrati nel grafico riflettano il meccanismo descritto da Claudia Goldin sarebbe ovviamente necessario tenere conto dei molti fattori che potrebbero contribuire a generare quel risultato.4 Rimane il fatto che la coerenza tra il Grafico 2 e l’ipotesi di Goldin suggerisce che quest’ultima dovrebbe essere presa in seria considerazione per studiare le fonti del calo del TdF sardo – sceso fino allo 0,91 – e le ragioni per cui ha seguito un percorso parallelo a quello coreano.
Più in generale, oggi è difficile dire quanta parte del calo della fecondità dipenda da meccanismi come quello descritto fin qui. Ma l’ipotesi di Goldin serve almeno ad avvertirci che ci troviamo di fronte a un problema profondo e complesso, e che non dovrebbe sorprenderci il fallimento di politiche che hanno scommesso, sbagliando, su meccanismi molto più semplici.
Questo articolo è stato scritto per il Rapporto CRENoS sull’economia della Sardegna. Ringrazio Barbara Dettori, Marco Nieddu e Mariano Porcu per aver letto attentamente la prima stesura, cosa che mi ha consentito di correggere alcuni errori e imprecisioni.
“Babies and the Macroeconomy” (NBER Working Paper 33311, 2024).
Fonte: World Bank Group: World Development Indicators.
Mie elaborazioni su dati Istat.
Per esempio, la probabile diversa efficacia delle politiche pubbliche pro-natalità tra nord e sud.
Ieri ho partecipato all'Assemblea nazionale per i 70 anni dello IAL, nella quale è intervenuto il Direttore Generale del CENSIS.
Il dott.Valerii ha evidenziato come il declino del tasso di natalità italiana sia direttamente correlato al fatto che la popolazione femminile tra i 15 e i 49 anni in Italia sia diminuita nel corso degli anni, passando da 14,3 milioni nel 1995 a 11,4 milioni nel 2025. Un calo demografico che, insieme a calo della fecondità, posticipazione delle nascite spiega per esempio la differenza tra le "Isole, con la Sardegna che presenta la fecondità più bassa e tardiva, e la Sicilia che, con le madri più giovani di Italia, presenta una fecondità tra le più alte nel panorama nazionale" (ISTAT, Report NATALITÀ E FECONDITÀ DELLA POPOLAZIONE RESIDENTE | ANN0 2023, Nascite e fecondità, non si arresta la discesa)
Molto convincente e quasi intuitivo. Molti possono riconoscersi in questa diagnosi. Ne deriva che un tasso di globalizzazione ben gestito sarebbe la cura ideale, mentre al contrario una chiusura a riccio nazionalistica tende a esacerbare il problema.